Il regista Alvis Hermanis (autore della Madama Butterfly che ha inaugurato la presente stagione della Scala) propone una doppia Tosca sovrapposta ambientata a cento anni una dall'altra. Successo pieno a Berlino per il debutto di Erwin Schrott nel ruolo di Scarpia.
A Berlino, nell’ambito della stagione della Staatsoper ancora in scena allo Schiller Theater (la riapertura della storica sede di Unter den Linden è però ormai vicina in quanto prevista per il prossimo autunno), ritorna la produzione di Tosca creata nel 2014 da Alvis Hermanis, regista lettone che ha firmato di recente interessanti produzione per il Festival di Salisburgo come Trovatore e Die Soldaten e che ha lavorato anche alla Scala, da ultimo con la Madama Butterfly che ha inaugurato la presente stagione.
L’impostazione registica è tradizionale, come del resto l’impianto scenico di Kristine Juriane che con pochi ma pertinenti tratti evoca i luoghi e le atmosfere in cui è ambientata l’opera; la novità consiste piuttosto nell’avere duplicato i piani narrativi, in quanto alla storia rappresentata sul palcoscenico si aggiunge il racconto affidato a dipinti proiettati nella parte superiore della scena che illustrano la vicenda in modo didascalico come fosse un feuilleton o un racconto a fumetti. I due piani narrativi raccontano in parallelo la medesima storia ma sono i costumi a indicare una datazione diversa: 1800 per la vicenda proiettata (ovvero l’epoca napoleonica in cui Puccini ambienta Tosca) e 1900 per l’azione recitata, ovvero la data della prima rappresentazione dell’opera. Se non fosse per gli iniziali titoli di testa che chiariscono le intenzioni del regista, non si presterebbe grande attenzione alle immagini acquerellate sovrastanti, ma non è chiaro che cosa aggiungano a livello drammaturgico in quanto principalmente replicano, se pur in un’altra datazione, quanto avviene sul palcoscenico e inevitabilmente distraggono lo spettatore che deve contemporaneamente guardare in punti diversi. La trovata è più interessante quando proiezioni e azione recitata discostano: come alla fine del secondo atto quando Tosca, dopo aver sedotto (e questa è una interessante variazione) e ucciso Scarpia, sorseggia del vino seduta a tavola mentre sullo schermo sfila l’immagine (a tutti nota) in cui dispone i candelabri accanto al cadavere insanguinato; oppure nel finale il volo di Tosca è affidata al quadro proiettato, mentre sulla scena la cantante rimane in piedi immobile rivolta verso il pubblico con le braccia alzate al cielo in una sorta di ascensione. Nel dia show le azioni dei personaggi sono intervallate a vedute di genere di una Roma ottocentesca e bucolica; ma oltre a non aggiungere nulla rischiano di indebolire la portata emotiva del plot e anche le luci fisse di Gleb Filshtinsky non sono efficaci a distinguere i vari momenti della giornata in cui si articola il dramma.
Nella presente ripresa il ruolo di Tosca è stato interpretato da Liudmilla Monastyrska: la voce è possente e drammatica, anche se talvolta un po’ troppo tagliente nelle impennate verso l’acuto; ma soprattutto mancano quelle doti di dizione e fraseggio necessarie per la definizione del ruolo della Diva; inoltre l’aspetto matronale e la recitazione convenzionale rendono la figura un po’ datata (per lei comunque grande successo di pubblico). Il tenore coreano Yoghhoon Lee è sempre più presente nei palcoscenici internazionali, dove sta riscuotendo un certo successo per la voce salda e sicura dalla tecnica ineccepibile; ma la tecnica, se non supportata da interpretazione, non basta a definire un personaggio e questo Cavaradossi, per quanto canti decisamente forte (se non fortissimo), risulta anonimo e le arie, correttamente snocciolate come fossero un compito da eseguire, scivolano via senza coinvolgere lo spettatore. L’attenzione, invece, la cattura fin dal suo primo apparire Erwin Schrott, debuttante di lusso nel ruolo di Scarpia: Schrott ha una presenza scenica fuori dal comune e ci piace per come definisce, in un modo del tutto personale, i personaggi che interpreta; il suo Scarpia è decisamente carismatico, cattivo, ma mai brutale, pericoloso proprio perché elegante e (apparentemente) distaccato; un po’ “fascista” per la virilità esibita e il conformismo cattolico di facciata dietro al quale si nascondono perversioni ravvisabili in gesti ossessivi: lo scuotere ripetuto del ventaglio, il passarsi il tovagliolo davanti alla bocca, il tremolio delle mani nel farsi il segno della croce; ogni gesto è pertinente e ogni sillaba è perfettamente scandita e inserita nella situazione drammatica; trattandosi di un debutto in un repertorio non ancora frequentato si avverte una certa cautela nelle frasi più spinte dove la voce è al limite nel reggere l’intonazione, ma il suono è sempre affascinante per colore e pienezza e riteniamo che sia un ruolo su cui puntare in futuro. Per quanto riguarda i personaggi minori ci è piaciuto il Sagrestano del giovanissimo David Ostrek e l’Angelotti di voce brunita di Grigory Shkarupa. Florian Hoffmann è stato uno Spoletta corretto ma non troppo caratterizzato. Concludono adeguatamente il cast Jan Martinik (Carceriere), Vincenzo Neri (Sciarrone) e il pastorello di Friedrich Witting, solista del Coro di Voci bianche della Staatsoper.
Domingo Hindoyan propone una lettura chiara ed efficace dal punto di vista narrativo che sottolinea tutti gli snodi drammatici della vicenda mantenendo sempre alta la tensione emotiva. La direzione non esita a privilegiare sonorità forti e d’impatto, mentre minore rilievo trovano le pagine più elegiache ed introspettive. L’orchestra della Staatskapelle Berlin risponde con un suono preciso e compatto. Buona la prova del Coro della Staatsoper diretto da Martin Wright nel Te Deum.